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Martin Buber
Colpa e senso di
colpa
A cura di Luca Bartolino –
Apogeo, Milano 2008
pag. 207, 13 Euro
E’ una tavola rotonda ricca e articolata quella che si raccoglie
attorno al saggio di Buber del ’57 su “Colpa e senso di colpa”.
Attraverso le parole di autori di diversa formazione, psicologia,
psicoterapia, filosofia e consulenza filosofica sono chiamate a
riflettere e rispondere della propria adeguatezza epistemologica e
di metodo nell’occuparsi del tema proposto dal filosofo viennese.
Quando vi è stata una colpa, si chiede Buber, quando cioè “qualcuno
viola un ordine del mondo umano i cui fondamenti egli conosce e
riconosce essenzialmente come quelli dell’esistenza umana comune a
lui e a tutti”, è corretto analizzare la sua angustia a partire da
categorie strettamente intrapsichiche quali i desideri infantili
repressi o i piaceri adolescenziali deviati (Freud), piuttosto che
da una visione diversamente solipsistica per cui la colpa è un atto
di infrazione al proprio processo di individuazione (Jung)? L’Altro
– il Tu così caro a Buber – che fine fa? Dov’è l’Io colpevole
rispetto al Tu ferito?
Se le malattie dell’anima sono malattie della relazione, tesi
centrale al pensiero buberiano, il tema della colpa deve essere
letto e affrontato a partire dalla relazione reale. Che cosa
comporta questo per un terapeuta? I suoi strumenti, la sua
epistemologia, sono in grado di assumersi questo compito e
responsabilità – quella, anche, di non sollevare frettolosamente il
paziente dal dolore di un’esperienza fondante quale il sentimento
della colpa nella consapevolezza dell’Io-Tu?
“Malattie della relazione”, “tra”, “Io-Tu” sono espressioni in cui
un terapeuta della gestalt può facilmente percepire l’eco dei propri
concetti fondanti e dell’“epistemologia di confine” che li sostiene,
e trovare uno spazio di approfondimento teorico di grande
arricchimento. Il tema del senso di colpa in particolare, se letto
con sguardo allargato al contesto socio-culturale che fa da sfondo
al suo evolversi (come proposto nel saggio di Gianni Francesetti),
rende particolarmente bene il quadro di sviluppo della psicoterapia
della gestalt come approccio capace di cogliere e curare la
sofferenza di un “tra” che cambia nella e con la società.
Torniamo a Buber. “Nessun altro se non chi ha inferto la ferita può
guarirla”. In questa prospettiva, l’espiazione è possibile quando ci
si pone di fronte all’Altro alla luce di un autentico “autorischiaramento”,
si confessa la propria colpa e per quanto possibile lo si aiuta a
superare le conseguenze della propria azione. Non sembra confidare
molto Buber per lo meno negli approcci psicoterapici del suo tempo
come possibilità di accompagnare tale processo, se non quando
superati i metodi già familiari guidino il paziente “là dove può
iniziare un aiuto essenziale del Sè”. Ecco allora aprirsi la tavola
rotonda: oggi quale disciplina, metodo, figura professionale
potrebbe farlo? E con quale sguardo, con quali strumenti?
Gli autori commentano il saggio da
angolazioni teoriche diverse. Da una prospettiva junghiana, Gian
Piero Quaglino riporta l’attenzione alla dimensione di relazione con
sé della colpa, sottolineando come l’essere umano, comunque si
comporti, è sempre inevitabilmente colpevole. Il percorso di
individuazione che ne sostiene l’evoluzione personale è una strada
fatta di continue separazioni/differenziazioni dalla dimensione
collettiva e pertanto fonda sempre nuove colpe; ma altrettanto il
mancato cammino individuativo rende colpevoli, mancanti, verso di
sé. Ecco l’importanza di non rimuovere ma soffermarsi sulla propria
colpa come possibilità conoscitiva ed evolutiva.
Umberto Galimberti collega il tema della colpa alla moderna società
di apparato e alla cultura tecnologica, che parcellizzando e
limitando la consapevolezza e l’agire al gesto del premere il
bottone “sottraggono all’etica il principio della responsabilità
personale”. Escluso da una visione d’insieme del processo
(lavorativo, sociale, culturale) a cui sta prendendo parte, l’uomo
finisce per occuparsi solo della modalità di esecuzione del suo
gesto e non anche delle sue ripercussioni, finalità, di cui non può
così sentirsi responsabile.
Andrea Poma, che ha curato l’edizione italiana del principio
dialogico di Buber e ne ha scritto la prefazione, riporta il tema
del rischiaramento-espiazione al piano giuridico “senza il quale è
impossibile riconoscere la dimensione sociale e politica della
colpa” e risolverla con un autentico lavoro morale; questo va
necessariamente collocato nello spazio della comunità e delle sue
regole, luogo elettivo della confessione e della elaborazione, non
sostituibile con quello “illusorio” della coscienza.
Con Ilaria Bertone la riflessione sulla colpa diviene occasione per
illustrare l’approccio concettuale ai problemi utilizzato nella
consulenza filosofica. Questa si propone di accompagnare la persona
in un percorso di chiarificazione di un dato problema-concetto
spostandosi dalla prospettiva particolare in cui è stato concepito
ad una dimensione di comprensione più generale. La definizione di
colpa proposta da Buber viene così scomposta e analizzata in alcuni
elementi logico-semantici che ne fondano una più articolata
comprensione.
Luca Bertolino riprende il discorso di Buber sui limiti delle
psicoterapie, “capaci di occuparsi del rapporto soggettivo della
coscienza con la trasgressione del tabù ma non di quello oggettivo
con la colpa reale”, indicando nella consulenza filosofica la
risorsa possibile. Se è vero che questa porta la persona a fare
esperienza della ricchezza insita nei concetti che utilizza, a farne
“domande che problematizzano astraendo”, è però vero che anche
conduce verso se stessi e a rendersi più responsabili dell’ordine
umano dell’essere.
Anche Ran Lahav si pone dal punto di vista della consulenza
filosofica come possibilità di concentrarsi sul significato della
colpa più che sui processi psicologici. Tale metodo può aiutare le
persone ad “analizzare il loro significato e sviluppare la propria
personale comprensione e risposta”. Di nuovo il concetto di colpa di
Buber si presta ad un approfondimento in chiave filosofica che ne
mette in luce tutta la ricchezza e complessità di temi e lo utilizza
per illustrare il metodo di intervento nella consulenza.
Gianni Francesetti allarga anzitutto lo sguardo dando sfondo e
collocazione storica al saggio iniziale. Per comprendere che cosa
sostenga il senso di colpa è necessario guardare quali siano i temi
cruciali, i conflitti dell’essere-con di una data fase
dell’esistenza umana. Se l’uomo di Freud è colpevole di non
uniformarsi pienamente alle istanze sociali in un’epoca in cui il
valore dell’appartenenza/uniformismo è cruciale (e in questo senso
l’analisi lo aiuta ad alleggerire il peso di un Super-Io troppo
rigido); se l’uomo di Jung è colpevole al contrario di tradire il
proprio sviluppo individuativo rinunciando alla propria autonomia in
un tempo in cui i parametri individuo-società si rovesciano a favore
di una soggettività “a tutti i costi” (e le terapie umanistiche lo
incoraggiano così all’autorealizzazione): l’uomo dell’ultimo
trentennio ha sconfinato nell’estremo narcisistico di una società
votata all’individualismo e l’abbandono delle appartenenze lo lascia
vuoto, solo e perfino incapace di sentirsi in colpa. Spiega
Francesetti: “ora la necessità terapeutica è spesso proprio
quella di recuperare o costituire la capacità di sentire la colpa.
Se non ci sono legami vincolanti, quale colpa posso avere nei
confronti dell’altro a cui non sono, appunto, vincolato? Se “là
il compito terapeutico era alleviare il senso di colpa da una colpa
onnipresente e insostenibile, qui il senso di colpa diventa segno
atteso e ricercato che testimonia il recupero della dimensione
relazionale”.
Diversamente dall’accusa mossa da Buber alle psicoterapie come
inadatte a occuparsi della colpa esistenziale in una dimensione di
reale relazione umana, si vede qui come la Psicoterapia della
Gestalt sia ponte che unisce psicologico ed esistenziale ribadendo
la continuità tra interno ed esterno e l’imprescindibilità dalla
relazione vissuta: non c’è gesto, pensiero, bisogno, che non sia
immediatamente al confine con l’Altro, che non lo riguardi
realmente. In questo senso anche la consapevolezza di colpa immette
subito nella possibilità di una riparazione come evento della
relazione e non semplicemente come elemento di “sollievo”
individuale. E proprio nella relazione col terapeuta si realizza
tale possibilità dal momento che il lavoro sullo stile di contatto
si sviluppa dall’ascolto di sé, dall’orientamento verso un
Altro/Ambiente riconosciuto come offeso, dalla manipolazione
(organizzazione di un movimento possibile verso l’Altro), fino al
contatto pieno (riconoscimento condiviso, esplicitazione,
riparazione) e all’assimilazione (crescita del sé-relazione). Al
punto che quando una riparazione non è più possibile nell’attualità
della relazione, paziente e terapeuta stanno e lavorano, insieme,
proprio su questa impossibilità.
L’approccio gestaltico rilegge così il concetto
intrapsichico/individuale di colpa in quello di responsabilità e,
ancora, di corresponsabilità; non solo quindi non separa, come
lamentato da Buber, “colpa e senso di colpa”, ma legge e affronta
ciò che accade nella relazione come evento di un confine che
appartiene a entrambi i versanti e da qui è co-costruito. “Dove
non c’è relazione non c’è senso di colpa”, ma dove non sia
vissuta dimensione alcuna di colpa lì significa che non c’è
relazione e questa deve essere ripristinata in ogni suo passaggio.
Ecco l’originalità di un approccio che “ha lo scopo di aumentare
la consapevolezza, anche (soprattutto) quando questa comporta
dolore, rendendolo sostenibile; il riappropriarsi della capacità
di soffrire per qualcosa che si è fatto all’Altro è già segno di
salute – di nuovo non individuale ma relazionale.
In che modo questo è possibile? Buber aveva già puntualizzato che lo
psicoterapeuta non può fare il pedagogo che inizia il paziente ai
valori etici: nella prospettiva gestaltica, l’etica nasce ed è
implicita nel ripristinare la fluidità di un movimento reciproco di
contatto in cui si è presenti all’Altro non meno che a sé. Movimento
che per essere rispettoso delle individualità e dell’incontro si
aggiorna di continuo nel qui ed ora, creativamente (il concetto di
creatività in gestalt può aggiornare quello di “individuazione” di
Jung come esperienza del “tra” e non del singolo, e in questo senso
alleggerirsi della colpa). E’ proprio quello che il terapeuta
gestaltico si propone di fare sapendo (nel metodo e
nell’epistemologia) di incontrare il paziente ad un confine sempre
cangiante, sensibile a cogliere il now ma teso alla novità del next.
E’ la terapia dell’essere e non dell’anima come l’intende Buber, per
la quale occorre saper correre il rischio di entrare nella
guarigione di volta in volta come partner e di camminare fuori dalle
regole sicure di un metodo. Ed è il cammino dell’estetica come
criterio che “ci dà la misura della presenza, attraverso la
percezione della forma, chiarezza, grazia della figura emergente”,
“percepibile solo attraverso la presenza piena al confine di
contatto”.
Silvia Riccamboni
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Margherita Spagnuolo Lobb
SESSUALITA' E AMORE NEL SETTING
GESTALTICO: DALLA MORTE DI EDIPO ALL'EMERGENZA DEL CAMPO
SITUAZIONALE
“Idee in Psicoterapia”,vol. 1 2008,n° 1, pp 35-47
Margherita Spagnuolo
Lobb
SEXUALITY AND LOVE IN A
PSYCHOTHERAPEUTIC SETTING: FROM THE DEATH OF OEDIPUS TO THE
EMERGENCE OF SITUATIONAL FIELD
“International
Journal of Psychotherapy”, vol. 13, n° 1, march 2009, pp 5-16
“Pare allora che il reale si presenti in
quanto almeno tre:
un reale corrispondente al soggetto
maschile, un reale
corrispondente al soggetto femminile
e un reale corrispondente
alla loro relazione. Questi tre
reali corrispondono dunque
ciascuno a un mondo, tuttavia questi
tre mondi interagiscono.
Non si presentano mai come propri
nel senso di indipendenti
l'uno dall'altro. E, quando
pretendono di farlo,
falliscono uno dei tre reali,
falsando così l'insieme.”
(Irigaray L.,”La via dell'amore”, 2008, p.77)
In questo
interessante articolo, pubblicato sia in italiano che in inglese
(nella prestigiosa rivista “International Journal of Psychotherapy”),
l'autrice affronta il tema della sessualità e dell'amore nel setting
psicoterapeutico, contestualizzandolo nella cornice epistemologica
della psicoterapia della Gestalt (PdG), in particolare nella teoria
del self e del suo concetto più significativo, ossia il
confine di contatto.
L'autrice infatti
definisce l'amore vissuto dal terapeuta e dal paziente nel processo
di contatto terapeutico come un “accadimento al confine di contatto”
che “risponde ad un'autoregolazione della situazione “ e quindi
permette l'emergere in figura delle intenzionalità di contatto
incompiute, sottese dai sentimenti di attrazione tra terapeuta e
paziente.
Un aspetto molto
innovativo proposto dall'autrice riguarda poi il collocare queste
intenzionalità incompiute (che si esprimono nel setting terapeutico
in forma di sentimenti di amore o di attrazione erotica), in un
campo fenomenologico triadico. M. Spagnuolo Lobb parla inizialmente
di ciò riferendosi allo sviluppo del bambino, la percezione del
quale è rivolta sia verso il confine di contatto tra la madre e il
padre sia a quelli tra sé e la madre e tra sé e il padre. L'autrice
poi sposta la sua attenzione sull'applicazione del concetto di campo
triadico al setting terapeutico, applicazione che favorisce
l'emergere di aspetti dello sfondo dell'esperienza che allargano la
percezione, e quindi il contatto, tra il paziente e il terapeuta,
permettendo l'integrazione dei “vissuti di amore e sessualità...per
ricostruire il ground su cui poggia la vita di relazione, il
senso di sicurezza nella terra e nell'altro...”
Per mostrarci ciò,
l'autrice porta un esempio clinico dell'utilizzo della prospettiva
triadica in un setting diadico, mostrando come il passaggio ad una
logica di questo genere crei la possibilità di mobilitare il confine
di contatto in termini di maggior spontaneità e fluidità.
L'autrice ci
sottolinea inoltre come l'ermeneutica del confine di contatto ci
permetta di uscire da una visione individualistica dei bisogni, che
si attualizza ad esempio nel concetto del complesso di Edipo: “ogni
emozione provata dal paziente per il terapeuta non è una mera
ripetizione, un transfert,.....ma è una risposta specifica modulata
appositamente per quel terapeuta, nel quadro di riferimento dello
schema relazionale che il paziente intende modificare.”
Ci sembra che in
questo articolo M. Spagnuolo Lobb ci illustri molto efficacemente la
preziosità del concetto cardine della PdG, quello di confine di
contatto, inteso come un costrutto che riorganizza il pensare al
campo relazionale terapeutico, in particolare in quei suoi aspetti a
volte di difficile gestione, quali quelli trattati in questo
articolo.
La lettura di
questo testo perciò arricchisce il bagaglio di ogni terapeuta della
Gestalt, grazie al suo mettere in luce così acutamente possibilità
e applicazioni di questo approccio che ancora ci permette di
nutrirci di nuovi interessanti sapori.
Maria Mione,
Istituto di Gestalt H.C.C - Venezia
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Sandro Vero (a cura di)
Il corpo disabitato.
Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness
Franco Angeli Editore, Milano, 2008
Euro 15,00
La raccolta di
contributi curata da Sandro Vero rappresenta una interessante
riflessione psicologica sul fitness e sui suoi molteplici
significati all’interno di una società postmoderna – la nostra –
che ha fatto del corpo “disabitato” il proprio emblema. La chiave
di lettura fenomenologica rimane la più valida per sottolineare la
pervasività dell’efficientismo che esige un corpo tecnologicamente
ed esteticamente “ineccepibile” e ossessivamente controllato.
Esigenza che cozza contro il bisogno di contatto che
appartiene al corpo in quanto espressione della embodied mind
di cui parlano i maestri della fenomenologia contemporanea come
Merlau-Ponty e Humberto Varela. Centrale, nel lavoro di Vero, è
l’evidenza che travalica il concetto di linguaggio del corpo per cui
il corpo è esso stesso un linguaggio in quanto portatore e
produttore di senso. Ma quando è disabitato? Quando a prevalere è la
tecnica “muscolare” che fa dell’organismo al contempo il soggetto e
l’oggetto autoreferenziale del proprio narcisismo? Anoressia,
bulimia, tossicodipendenza, ortoressia diventano espressione altra
di tale tecnicismo. Al pari del fitness hanno lo scopo di congelare
il tempo salvaguardando un’immagine perennemente asettica e
narcisistica dell’incarnazione di un falso sè.
Tra i contributi
presenti nel volume di Vero spicca il paragrafo su “La psicoterapia
della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness”,
curato da Giovanni Salonia. L’autore – punto di riferimento per
almeno tre generazioni di terapeuti della Gestalt in Italia,
direttore dell’Istituto di Gestalt “Kairòs” – traccia un
appassionante itinerario della corporeità in psicoterapia, da Freud
a Perls/Goodman, passando da Reich e dalla Bioenergetica. E’ con la
PdG, dice Salonia, che si ricompone lo split cartesiano corpo/mente
e che si giunge a un’integrazione olistica, grazie anche alla
lezione fenomenologica che considera non più das Korper (il
corpo anatomico) bensì das Leib (il corpo vibrante). Ed è
sempre la fenomenologia ad aiutarci nel progressivo passaggio dallo
schema corporeo visivo a quello funzionale per approdare al
“sentire”, e quindi ad abitare pienamente, il nostro corpo. Secondo
Giovanni esiste uno scarto tra schema corporeo implicito e corpo
reale, per cui le parti desensibilizzate, non percepite, rivelano
un blocco emozionale che a sua volta rimanda a un blocco
relazionale. Ne consegue una svolta a livello della nostra
conoscenza: comprendere non è tanto una funzione cognitiva quanto
una funzione corporea. Ed è proprio facilitare la comprensione del
vissuto corporeo che diventa il principale obiettivo terapeutico. A
sua volta, però, il vissuto non esaurisce l’esperienza di contatto:
il fondamentale, successivo passaggio riguarda la capacità di
cogliere l’intenzionalità, lo scopo, il “verso dove” il corpo sta
muovendosi nella sua interazione con l’ambiente. Sottolineare
l’importanza dell’azione, in PdG, è la base per leggere nel corpo
della persona i gesti mancati per poi riattivarli nel qui e ora
della relazione terapeutica. Dice Salonia: “Ritrovare il proprio
‘gesto mancato’ apre all’integrità e alla pienezza...La persona può
[così] sperimentare un contatto più vero e nutriente con l’altro”.
Altro caposaldo del
lavoro sul corpo è l’attenzione nei confronti del respiro del
paziente: renderlo consapevole spalanca le porte al “matrimonio tra
corpo e anima”. E’ proprio la sensazione di restringimento corporeo
- che porta all’alterazione del ritmo respiratorio (angst =
stretto, l’etimo di angoscia) - che dà origine
all’interruzione dell’esperienza relazionale, e che dà forma al
sintomo (l’instead of, l’azione sostitutiva).
Come si aggancia
questo affascinante excursus col tema del fitness? Lo stesso Salonia
lo chiarisce quando afferma come sia da evitare la riduzione del
corpo vissuto a corpo visto e valutato solo in chiave estetica
(atteggiamento tipico di certi eccessi del fitness). Il rischio è
tornare alla scissione tra mente e corpo, e quindi la perdita della
propria identità relazionale. Una evidente dimostrazione di come la
terapia della Gestalt si pone come modello ermeneutico
dell’organismo umano nel suo essere nel mondo.
Data la tematica
così coinvolgente per la nostra prassi clinica, la speranza di noi
terapeuti è che Giovanni Salonia decida di ampliare il discorso e di
realizzare in futuro un testo tutto suo per dare organicità e
profondità alle sue intuizioni e alle sue conoscenze per noi così
preziose.
Giuseppe
Sampognaro
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Margherita
Spagnolo Lobb- Nancy Amendt-Lyon
Il permesso di creare. L’arte della psicoterapia della Gestalt
Franco
Angeli, Milano 2007 – Euro 37
(ed. or.
Springer, 2003)
Presentazione
dell’edizione italiana
di Massimo
Ammaniti
Vi è una frase
illuminante del filosofo greco Plotino secondo cui il maestro può
indicare solo il percorso e la strada da compiere, ma la visione del
viaggio è di colui che avrà voluto vedere. Anche per il percorso che
viene fatto in psicoterapia si può affermare che l’approccio teorico
e le tecniche di intervento di ogni scuola definiscono la strada da
seguire, le tappe e le stesse finalità da raggiungere, ma anche in
questo caso la temperatura dell’incontro e soprattutto la
creatività dipendono dalla reciproca capacità di avvicinarsi, di
procedere insieme e di mantener viva la curiosità senza dover
ripetere schemi già conosciuti o addirittura ripetitivi.
Questo è il tema del
libro “Il permesso di creare” curato da Margherita Spagnuolo Lobb e
da Nancy Amendt-Lyon che solleva interrogativi che vanno ben aldilà
della psicoterapia della Gestalt ed investono l’ambito più generale
della cura. Infatti la creatività nella relazione di cura riguarda
ogni approccio psicoterapeutico in cui sono costantemente in gioco,
da una parte, la fedeltà ai principi e alle finalità della terapia e
alle sue strategie tecniche e dall’altra l’esperienza e l’intuizione
personale del terapeuta, ma soprattutto la costruzione della
relazione.
Naturalmente quanto
più l’apparato teorico della psicoterapia è rigido e vincolante e
scoraggia ogni ricerca autonoma, tanto più il terapeuta tenderà a
rifarsi ai principi codificati evitando di mettersi in gioco
personalmente. Vi è una scena dell’iconografia religiosa che
descrive bene questo modo di affrontare l’incontro terapeutico, è la
scena del “Noli me tangere” in cui si vede Cristo che si ritrae
facendo con la mano la mossa di prendere le distanze e di
allontanare la Maddalena che invece vorrebbe abbracciarlo. Troppo
spesso in psicoterapia vale il principio del “noli me tangere”, che
viene a sancire la distanza reciproca e l’impossibilità di uscire
fuori dagli schemi codificati. Pur non conoscendo a fondo la
psicoterapia della Gestalt ho l’impressione che i principi teorici
su cui si basa siano sufficientemente aperti da permettere la
ricerca di visioni nuove senza dovervi rinunciare per paura di porsi
al di fuori dell’ortodossia.
Quando si parla di
creatività nella relazione psicoterapeutica si può fare riferimento
alle teorie della creatività, come ad esempio quella della volontà
creativa di Otto Rank a cui è dedicato un capitolo del libro. Ma
forse esistono forme diverse di creatività nell’incontro
psicoterapeutico, come mise in luce lo psicoanalista di origine
cilena Matte Blanco. A volte l’immagine migliore per descrivere
l’incontro psicoterapeutico è quella del contadino che si prende
cura della sua terra, la dissoda, la libera dai sassi, la concima
per poi piantarvi i semi oppure la pianta. La figura del contadino
non si riferisce solo al terapeuta ma ad un’attitudine che si
costruisce a due nella relazione terapeutica.
Naturalmente la
tradizione, nel caso del contadino addirittura secolare, lo può
soccorrere nel suo lavoro e nelle sue attente cure, tuttavia c’è
poi una capacità di intuizione per capire quando è il momento
migliore per far crescere la pianta, come innaffiarla e come
togliere le foglie secchie e le erbacce. E ci sono contadini che
amano la propria terra e le piante e contadini che lo fanno solo per
vivere e per svolgere il proprio lavoro. E’ il modello del prendersi
cura, molto simile a quello che fa una madre col proprio figlio
quando è piccolo, quando cerca di capire i comportamenti e i
messaggi del figlio in modo da adattarsi a lui. Anche in
psicoterapia si crea un’attitudine condivisa di prendersi cura per
quello che emerge nella relazione, cercando di riconoscerlo e di
farlo crescere e trovando la giusta distanza fra protezione ed
autonomia reciproca.
Esiste tuttavia un
altro modello, quello del cacciatore che insegue la sua preda, che
naturalmente non è il paziente. L’inseguimento della preda ha a che
fare con la ricerca di nuovi territori della mente e del
funzionamento corporeo, vi è infatti nella coppia terapeutica il
desiderio di conoscere e di scoprire nuovi orizzonti, seguendo
indizi, tracce, odori.
All’interno di questi
due modelli può emergere una creatività se si esce dagli schemi
abituali, ossia un ex-sistere dall’etimo della parola esistenza che
viene ad indicare la capacità di uscire fuori, di porsi su un piano
“mondano”. Per questo motivo più che alla volontà creativa di Otto
Rank, che sottolinea la determinazione ad uscire fuori dalla
convenzionalità, conviene fare riferimento al concetto di area
transizionale di Winnicott. Secondo Winnicott nell’area
transizionale si condensa da una parte l’esperienza reale e
dall’altra la capacità di immaginare e di evocare per cui ci si
stacca dal piano percettivo della realtà. In questo gioco fra realtà
e fantasia prende corpo la creatività che possiamo tradurre sul
piano terapeutico nella capacità di rimanere all’interno della
cornice reale del rapporto e allo stesso tempo sviluppare la
capacità simbolica e quella immaginativa nel rapporto di coppia.
Il libro “Il permesso
di creare” sembra ben cogliere, già fin dal titolo e poi nei
capitoli, questa doppia polarità, ossia il permesso inteso come
autorizzazione nella cornice prescrittiva della psicoterapia e
dall’altra la creatività come libera espressione di un’esigenza che
prende corpo nell’incontro fra terapeuta e paziente.
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GIUSEPPE
SAMPOGNARO
scrivere l’indicibile
la scrittura creativa in psicoterapia della gestalt
Franco Angeli 2008
Euro 15
Il libro di G.
Sampognaro è un’opera scritta non solo da un addetto ai lavori
(l’autore è psicologo, psicoterapeuta della Gestalt) ma è il frutto
di una esperienza decennale e di una tecnica affinata da uno
scrittore che crede nel potere terapeutico della scrittura.
Il testo è
suddiviso sostanzialmente in tre parti. Una prima parte in cui si
parla della scrittura come atto creativo e viene introdotto il
concetto di scrittura come strumento di cura.
Una seconda parte
nella quale si descrivono i blocchi che impediscono il fluire di
tale processo creativo.
Nella parte finale
vengono descritte le modalità per superare il blocco.
C’è un ultimo
capitolo dedicato alla scrittura in gruppo. Come lo stesso autore
sottolinea, non vengono suggerite tecniche tout court , ma
viene proposto uno schema di lavoro nell’ambito di un gruppo.
Il filo conduttore
del libro è il ciclo di contatto e le modalità con cui si interrompe
la spontaneità al contatto. Questi due concetti, cardine nella
psicoterapia della Gestalt, vengono perfettamente adattati al
processo dello scrivere. Chi si appresta a scrivere sente un bisogno
che emerge dallo sfondo, si orienta, scrive (contatto pieno), ha
soddisfatto il suo bisogno di comunicare, si ritira in maniera sana
dal contatto. E così come avviene in tutte le altre modalità di fare
contatto, anche il processo dello scrivere può andare incontro a dei
blocchi.
Altro parallelo che l’autore crea è tra
scrittura e terapia. Utilizzando sempre il paradigma del ciclo di
contatto, spiega come la scrittura è indicativa dello stile
relazionale del pz e che la stessa può essere sostegno al contatto.
L’autore più volte sottolinea come, lo scrivere non equivale al
parlare e che non può sostituire l’atto verbale.
In ultimo, ma non
per questo meno importante, da sottolineare la chiarezza espositiva.
Il testo, che di fatto è un manuale di scrittura creativa, contiene
la scorrevolezza della narrativa, anche grazie ai tanti esempi
clinici che l’autore riporta. Talvolta le ferite sono così profonde,
che anche il solo sentire la propria voce che ne parla può essere
insopportabile. Scrivere, forse può favorire la comprensione e
l’integrazione del dolore nel romanzo della nostra vita.
Maria Luisa Grech
Istituto di Gestalt HCC, Siracusa
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